Caro datore di lavoro… ti lascio.


Caro datore di lavoro.. Ti lascio.

E lo so che queste poche parole sono un suicidio diretto perché, vuoi o non vuoi, prima di trovare un altro lavoro passerò giornate di attese, ansie e angosce. Giornate di caffè e niente, di telefono che non suona, di mail che cadono nel vuoto senza fare rumore.

Non mi chiederai di restare, me lo sento. Lo hai già detto a chi prima di me è andato via: “Tanto appena esci da quella porta ce ne sono altri 100 pronti a fare quello che fai, per molto meno”. Allora perché ti scrivo? Perché questa lettera non è una stringata e burocratica dichiarazione di dimissioni ma ha un tono personale? La risposta è che voglio metterti in guardia dagli errori che hai fatto con me perché da chiunque, anche dai sottoposti, c’è sempre da imparare.

Non lascio il mio lavoro per lo stipendio basso, gli orari assurdi o le richieste eccessive. Da tutte le parti negli ultimi tempi ho letto che dobbiamo fare ripartire l’Italia. Ed io lo so quanto costa mettere in moto qualcosa: mio zio era un meccanico d’auto e non c’è stato un giorno della sua vita in cui non l’ho visto sudato, con le mani sporche di grasso e le sopracciglia aggrottate. Non è la fatica che mi spaventa, te lo assicuro.

Ti lascio perché nonostante tu abbia al tuo fianco molte persone non riesci a valorizzarle. Sei un direttore d’orchestra che non sa armonizzare i suoi strumenti. Ti lascio perché quando nel mio lavoro avresti potuto sostenermi con la tua esperienza in realtà ti sei solo lamentato dei miei insuccessi. Sono giovane, è vero, la mia strada è lunga, ma avresti potuto raccogliere le mie energie e sfruttarle. Avresti potuto progettare con me il modo più efficace di lavorare per entrambi, ma sei solo riuscito a creare un muro fra il mio tavolo e la tua scrivania. E soprattutto hai ignorato che un capo non è uno che comanda, ma uno che guida.

Caro Datore di Lavoro, la mia non è una lettera per offenderti o sputare nel piatto dove ho mangiato. Al contrario. Siccome il mio lavoro lo amo tanto ho deciso di scriverti perché tu possa migliorare le relazioni con le persone che hai intorno e  quindi il risultato.

Il mio augurio è di chiudere l’ufficio ogni sera sapendo di aver fatto il meglio per le persone che ti circondano, per te e quindi per tutti noi. Per tutta quella famosa Italia insomma.

Grazie

Un tuo ex impiegato, ora in cerca di un altro lavoro.

Nota: So che in molti vorrebbero scrivere una lettera così al proprio Capo ma per vari motivi non possono. Io mi sono presa la libertà di farlo per tutti (e v’assicuro, è una grandissima libertà). Queste parole non nascono dalla mia esperienza diretta ma dalla raccolta di molte, troppe storie personali sia nella vita privata che sul web. Se sei un datore di lavoro e ti riconosci in ciò che ho raccontato fai tesoro di questa lettera, ringrazia chi ti supporta, fallo sentire parte della squadra. Tieni a mente che per competere sul mercato non devi solo conquistare clienti ma avere un team motivato e vincente. Buon lavoro a tutti! 

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Una lettera d’amore per la Social Innovation


Ieri la mia giornata è stata diversa dal solito. A causa di un impegno sono tornata per la seconda volta a Siracusa, per la precisione a Ortigia. Sappiatelo: io fino a tre anni fa non sapevo nemmeno come fosse fatta Ortigia. Poi ci sono andata una volta e: bum. Mi sono innamorata. Non solo per l’arte che si respira ad ogni angolo ma soprattutto perché, varcato il ponte, sembra di stare proprio in un’altra dimensione.

Ortigia è anche la sede di Hub Siracusa (di cui ho già parlato nell’ articolo sulle Geek Girl) quindi quando posso, ogni scusa è buona per andare a respirare l’aria di quel posto e ricaricare le batterie.

Insomma. Ero lì che prendevo il caffè, guardavo il ponte e meditavo sulle persone, l’innovazione sociale, le startup e i progetti quando mi viene in mente un pezzo di “Le Città Invisibili” di Calvino. Protagonista Marco Polo che cerca di spiegare la struttura di un ponte a Kublai Kan.

–   Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?- chiede Kublai Kan.

–   Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, – risponde Marco, – ma dalla linea dell’arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa.

Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.

La frase finale continuava a ronzarmi in testa come un mantra mentre fissavo lo specchio dell’acqua. E ho capito che non mi era venuta a caso.  Proprio come le pietre del ponte impegnate a creare un passaggio fino alla riva opposta anche ciascuno di noi ha una sua funzione. Ma questa funzione può essere portata a termine solo se ci “incastriamo” con gli altri e smussiamo gli spigoli per un disegno comune.

Non solo: la metafora delle pietre calza a pennello anche nel campo della progettualità. Se ogni pietra rappresenta un’idea allora è solo l’insieme delle pietre, la posizione in cui sono disposte, il collante che le unisce a formare l’arco. E per farlo bisogna che gli architetti conoscano le pietre una ad una, e gli diano il giusto posto e il giusto peso.

E’ impossibile costruire quel ponte singolarmente. O almeno, è molto più difficile e lento. E soprattutto, a costruire da soli, si corre il rischio di perdersi qualche pietra o di fallire e mettere da parte il proprio sogno.

Questo me lo hanno insegnato anche i social media. E credetemi se vi dico che sul web c’è molta più gente di quello che pensate pronta a dare una mano in maniera del tutto volontaria ad un progetto in cui crede.

Ecco la sfida per il prossimo futuro: porsi davanti ai problemi di tutti i giorni e cercare soluzioni non da parte dei singoli ma come comunità, mixando saperi e sapori, conoscenze e attitudini, tradizioni e modernità.  Io la chiamo innovazione sociale. E’ piccola e neonata, ma io già la amo. E sarà il nostro ponte verso un pianeta migliore.

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Cos’è il pitch, a cosa ti serve e come puoi farlo al meglio.


Se avete seguito ieri la videochat di Luca de Biase e Gianluca Dettori  su SOLE24ORE avrete notato come a chiusura il saluto sia stato “Siamo nella settimana delle verità”.

Frase emblematica non solo perché riguarda il mondo delle startup, perché siamo in attesa di questo famigerato decreto Passera (in cui riponiamo le nostre speranze), ma anche perché in questi giorni di Settembre buona parte di noi è alle prese con esami universitari, test d’ammissione, primi giorni di scuola, e colloqui di lavoro. E’ come se dopo la fine dell’estate tutti fossimo immersi più di prima nel misurare, validare, confrontare e … sperare!

La mia attenzione in particolare è caduta su una parte molto interessante del discorso che credo possa essere allargata e riguardare non solo chi ha in mente un progetto imprenditoriale.  Avete mai sentito parlare di pitch?! Se il nome vi sembra quello di un piatto cinese siete fuori strada. E’ ripreso dal linguaggio sportivo del baseball e indica il lancio della palla.  E questi americani ci hanno visto giusto: un colpo ben assestato può portare in maniera più veloce alla conquista del punto. Per traslato il termine indica una breve presentazione dell’idea  che sta alla base di una startup. 

Ma andiamo con ordine: a cosa può servirti un pitch?

Mettiamo il caso tu ti stia preparando ad un colloquio di lavoro. Hai calcolato lo stress, l’ansia e le domande trabocchetto. Ma hai valutato l’importanza della tua presentazione? Ecco che il pitch viene in tuo soccorso! Chi  deve convincere un investitore della validità del suo progetto sa bene come ci si vende. Sfrutta alcune delle sue dritte

a) Tempo: crea pitch variabili. Da 30, 60, 120 secondi. Non è necessario che racconti dalla prima comunione alla tua stressante serata del weekend. Informazioni brevi, chiare e coincise.

b) Rem tene verba sequentur: non farti trovare impreparato. Come uno startupper conosce bene il suo progetto tu studia il tuo curriculum e se noti delle incongruenze cerca di avere una buona spiegazione per minimizzarle.

c)Lo sviluppo ideale del pitch: esponi il problema che pensi di poter risolvere con la tua idea. Sottolinea quali sono le tue peculiarità e come ti porrai nell’affrontarlo, Evidenzia se hai già affrontato il problema in passato e come ne sei uscito.  A me è capitato spesso che mi  venisse richiesto esplicitamente “Lei cosa farebbe se” e questo mi sembra uno schema facilmente adattabile.

d) Aggiornamento: il pitch dello startupper varia a seconda delle condizioni e della vita della sua idea (oltre che in base all’ascoltatore). Anche tu puoi modificare il tuo pitch facendo riferimento a progetti più freschi nei quali hai espresso le tue capacità.

Come si vede il pitch è molto utile anche per chi vuole proporre una nuova idea al suo capo, chiedere un finanziamento o gettare le basi di un progetto scolastico.

Ciò che inoltre è saltato fuori dall’evento a cui ho preso parte è che in Italia purtroppo manca la “cultura del fallimento“. Vuoi per orgoglio nazionalistico, vuoi per pigrizia o perché siamo impietosi: se un’idea in Italia fallisce tendiamo a considerarci stupidi o a additare tutto alla sfortuna. E’ giunto il momento di considerare le cadute come possibilità per vedere la situazione da diversa prospettiva (per quanto bassa e scomoda!). E’ indispensabile fare la muta, cambiare atteggiamento e pelle perdendo alcuni dei nostri italianissimi difettucci:  poco pragmatismo, troppa teoria (causa anche di un mediocre sistema universitario), scarsa abitudine alla progettualità.

Del resto, Darwin insegna, non sono stati gli esseri viventi più forti a conquistare il mondo ma solo chi ha saputo adattarsi alle nuove condizioni.

Ps. Se poi il pitch vi ha conquistato esercitatevi a migliorarlo usando questa applicazione della Harvard  Business School. E se vi siete persi la videochat su Startup e Innovazione potete trovare un buon riassunto fatto da Greta Milici proprio qui 

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Il divieto di fotografare (ovvero sono una blogger… non una terrorista!)


Se appartenete alla categoria di quelli con lo smartphone sempre in mano, pronti a cogliere l’attimo e instagrammare un paio di scarpe che vi hanno rubato il cuore, i piedi del vicino di bus, il gattino accoccolato sul divano, questo post è per voi.

Lo ammetto:  non sono una maniaca della fotografia, non ne capisco niente di obiettivi. Ma fare foto mi piace, se poi ci aggiungo la possibilità di modificarli con app e condividerle… capite perché la batteria duri così poco! Quello che però mi è successo sabato mi ha lasciato perplessa e ho deciso di scrivere un post per raccogliere i vostri pareri.

Approfittando di un’oretta libera sono andata a gironzolare in un grosso centro commerciale. Ero intenta a curiosare fra le vetrine quando una forza misteriosa mi ha letteralmente attirato dentro un negozio di scarpe. No, non è la forza misteriosa il problema. Mi guardavo intorno sognando i più svariati millemila abbinamenti  e ponendomi quesiti esistenziali del tipo: “tacco 12 con abitino sexy o biker boots e pantalone di pelle?” quando un paio di francesine blu elettrico catturano la mia attenzione. Belle, fantastiche… aspetta! Voglio fargli una foto e mandarle alle mie amiche shopaholiche! Tiro fuori lo smartphone e …

“Ah signorina no no! Non è possibile! No foto! Nain! No picture!” 

la commessa corre verso di me tutta affannata urlando. Poso l’arma a terra e alzo le mani sopra la nuca pronta a sentirle elencare i miei diritti. Intanto tutte le clienti si sono girate e mi guardano come se avessi appena rubato un paio di Louboutin. A quel punto la curiosità mi pervade e chiedo con cortesia quale sia la motivazione del divieto (dato che non c’è cartello all’ingresso). A denti stretti mi dice che “non è possibile fare foto dentro al negozio”. Nemmeno agli oggetti esposti? Nemmeno a quelli.

Ma il dubbio mi resta. Così decido di chiedere a chi le foto ai prodotti li deve fare per necessità lavorative. La mia scelta ricade sulla fashion editor e blogger Venera di Onecentlife: è una vera fiutatrice di tesori nonché una ragazza straordinaria per la sua dolcezza e disponibilità. Mi conferma che anche a lei è accaduta questa situazione (piuttosto spiacevole!) per cui, prima di scattare con la reflex, in genere chiede al negoziante. <<Credo dipenda dalle politiche aziendali e dall’esclusività di certi prodotti>> mi suggerisce.

Se però qualcuno impedisse di fare una foto ad un oggetto dentro ad un negozio per questioni di privacy ci si potrebbe opporre. Come mi fa giustamente notare il mio amico Dario (dedito più che mai a studi legislativi.. anzi, come si dice per fare figo Trainee Legal) << La privacy è un diritto relativo alle persone e non alle cose>>, per cui tecnicamente le mie scarpe sono in salvo in quanto non rientrano nei casi sopracitati.

Ma in questa storia voglio vederci chiaro. In effetti indagando sul web ho trovato questo post sul divieto di fotografare  di Marco Iegre dove potete leggere un elenco di luoghi dove non è possibile fare click fra cui <<Non si può fotografare nei negozi, inclusi centri commerciali incluse le aree ‘comuni’ (come i corridoi fra negozi) perchè hanno paura che ti metti a fare raccolta di prezzi per la concorrenza e sopratutto gli rubi le idee di marketing per come dispongono la merce>>

Ma quando un blogger fotografa un oggetto (ad esempio nel mio caso delle scarpe!) deve sottostare alle stesse regole? Secondo me tutto ciò è abbastanza limitante anzi, per certi casi, i negozianti dovrebbero essere più informati e perché no, indulgenti. Ecco quindi una piccola list dal titolo

Perché devi lasciare entrare un  blogger+fotocamera nel tuo negozio

  1. E’ potenzialmente un cliente. Se il primo contatto che hai con lui è un categorico “non si può/ non si deve” istintivamente indisporrai all’acquisto anche solo di un paio di gambaletti!
  2. Se le sue foto non danneggiano la privacy di nessuno (ad esempio, inquadra delle scarpe!) sta in qualche modo promuovendo il tuo prodotto. Che lo condivida su Facebook, lo twitti agli amici o lo inserisca in un check-in di FourSquare.
  3. Sta mostrando ad un pubblico molto più ampio di quello del tuo centro commerciale, la disponibilità di un pezzo che magari qualcuno sta cercando. E se questo può non andar bene per oggetti pregiati o di cui la rarità diventa il vero valore, dovrebbe invece essere un incentivo ai negozi della fascia medio bassa.
  4. Un blogger nel negozio è anche un modo per esternare la tua professionalità e le qualità di ciò che offri. A volte una commessa gentile, un trattamento rispettoso o semplicemente la cordialità fanno il plus che spinge il cliente a ritornare
  5. La reputazione del tuo marchio/negozio passa anche dalla rete e se una blogger come Chiara Ferragni trasforma in oro tutto ciò che tocc.. ehm, indossa allora due conti dovreste anche farveli!

L’acquisto infatti sta diventando sempre più un’esperienza emozionale piuttosto che la mera compravendita dell’ oggetto dei desideri. Quale sarebbe quindi l’approccio più corretto? Secondo me  un buon esempio è ciò che è accaduto a  Giuseppe di Geektrends <<quando stavo facendo la fotografia il negoziante mi ha consegnato un biglietto chiedendomi di taggarlo nella foto>>. Una mossa semplice sia per guadagnarsi la simpatia del blogger che per avere un po’ di pubblicità gratis.

Voi cosa ne pensate?

Ps. Se alla fine di questo post avete pensato “Sono un fotografo, non un terrorista!”  potete aderire a questo simpatico gruppo su Flickr  dal titolo “Not a crime” dove centinaia di amanti dei ritratti hanno postato la loro originale protesta!

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Sarà un futuro bellissimo.


E’ stata una settimana intensa da ogni punto di vista. La ripresa del lavoro (che in realtà per me non si è mai fermato!) ha tutto un nuovo slancio e negli ultimi tre giorni, soprattutto su Twitter, si sono aperti dibattiti davvero interessanti in merito a molti argomenti che ci toccano: lavoro, economia, social, marketing,  etc.

Oggi è venerdì, dovrei scrivere un post (dovrei!?) ma invece voglio condividere con voi ciò che mi sembra molto interessante e alcune novità.

La prima la list di Futura Pagano  su come rendere più umani i Job Recruiter.  Divertente, ironica, ben scritta. Consigliata domattina a colazione.

La seconda è che domenica c’è Tagghila Giarre l’evento social green di cui avevo parlato qui. Abbiamo ricevuto davvero una gran risposta da parte del web e siamo molto soddisfatti di quanto si sta facendo ma la prova del nove l’avremo solo quando molleremo gli smartphone per tramutarci in giardinieri social2.0. Spero verrete in tantissimi anche e soprattutto per conoscerci di persona. E se non potete venire lanciateci un Tweet di sostegno usando l’hashtag #TagghilaGiarre. 

Sempre per questo ieri sono stata ospite di quei matti di Laura, Martino e Johnny da Radiolab: fantastica esperienza che spero prima o poi di ripetere! La radio è sempre stato il mio amore segreto, vuoi perché ho la parlantina, vuoi perché anche mio padre, in tempi non sospetti, era un dj. Li ringrazio e ne approfitto anche per salutare Emanuele, alias “la voce di Dio”

 

Infine sempre ieri sono stata dalla mia nipotina Giorgia. Mentre la torturavo costringendola a sopportare i miei deliri e mi approfittavo dei suoi giochini luminosi a forma di stella (ho un debole per le stelle!) d’un tratto ho pensato fra me e me: sarà un futuro bellissimo.

E lo sarà perché la tecnologia ci avvicina, permette di costruire ponti e relazioni fra persone lontanissime. Consente di comunicare, di far viaggiare idee, di lavorare insieme anche se a migliaia di chilometri di distanza. Sarà un futuro bellissimo perché Giorgia, e gli altri bambini come lei, potranno godere di un mondo fatto di condivisione e informazione, di un sistema più sensibile, e di una realtà che, se riusciamo ad afferrarla in tempo, consentirà all’uomo di vivere in maniera sostenibile davvero. Guardandomi intorno mi sembra che siamo in molti a lavorare per questo, ed è come se ogni giorno un granellino si aggiungesse a quanto è stato fatto.

E’ vero, c’è anche molto da migliorare, ma al contrario del passato mi sembra che i mezzi siano a portata di una fascia più ampia della popolazione e soprattutto che la percentuale di coloro i quali decidono di agire stia aumentando. 

Sarà un futuro bellissimo se decidiamo di mettere da parte il nostro orticello personale e veleggiamo verso il largo e lo spazio, metà Star Trek e metà Cristoforo Colombo.

Sarà un futuro bellissimo se riusciremo a pensare in “modalità futuro”, mantenere il nostro cuore umano e non avere paura. Perché, come ho letto da qualche parte “la paura mangia l’anima.” 

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Come lavorare nei Social Media e fare la fame.


Se stai pensando che lavorare nei Social sia figo, faresti bene a leggere prima questo post.

“Certo- penserai- questa fa la social media manager e viene a sputare nel piatto in cui mangia!” Affatto. Proprio perché amo questo lavoro e ci credo moltissimo mi sembra giusto far notare chi lo prende in maniera poco seria o addirittura usa la parola social come esca di sfruttamento per giovani laureati e persone in cerca di occupazione.

Il primo input mi viene da Riccardo Scandellari  che pubblica questo tweet

In questa offerta di lavoro per Web Video editor, se date un occhio alle competenze richieste, vi rendete conto del divario enorme fra il da fare e il contratto offerto (STAGE). Ma non finisce qui… guardate attentamente l’annuncio

Not paid.  Non “not iPad” o no benefits. No money, niente soldi. Ovvero: tutto AGGRATIS.  E questo dove? Non in una piccola realtà di provincia ma niente poco di meno che nella titolata ColoradoFilm di Abatantuono&Salvadores&Motti.

Altro annuncio che mi è sembrato davvero discutibile mi è giunto via mail da un amico.

Per la fantasmagorica cifra di 400€ lordi potrete aspirare a diventare tutor online dell’Università di Macerata Con le seguenti funzioni

Nel bando però si legge anche che oltre ai 400€ lordi potrete beneficiare anche di una quota variabile in relazione agli iscritti seguiti. Quindi vi ritrovate ad essere una specie di “call center fisso+ provvigioni”. Non ho idea di quanti siano i frequentanti di Macerata, ma credo che in ogni caso, per la tipologia di lavoro che bisognerebbe fare, la cifra proposta è davvero all’osso.

E’ anche vero che di questi tempi: poco lavoro è meglio di niente e fa comunque curriculum. Ma se potete, se non ne avete la necessità, se avete la possibilità di fare un minimo di selezione, vi invito a boicottare questi strozzini che, dietro la scusa del posto di lavoro, non fanno altro che offendere la dignità di chi ha passato anni a studiare e con lui offendono anche i sacrifici di migliaia di famiglie che credono ancora nell’istruzione come accesso al mondo del lavoro.

Nessuno di noi è immune alla gavetta gratis (che deve essere comunque formativa, altrimenti è meglio continuare a studiare!).Ma arriva un momento in cui fra la gavetta e l’abuso lo stacco è netto e definitivo. Io credo che siamo ancora in tempo, almeno nel nostro campo, per evitare che si crei questo mercato della morte.

Vi lascio con questo piccolo post di Digital Accademia su “Cose che devi sapere per lavorare nei Social Media.” C’è scritto “La retribuzione non è glamour”. Io aggiungerei: lo sfruttamento non è consentito. 

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Startup e innovazione: la riscossa degli ultimi della classe.


Da piccolo chi eri? Un secchione? Il cocco della maestra? La bimba col grembiule sempre pulito e le treccine?  Chiunque tu sia stato sono sicura che ricorderai  il tuo compagno pestifero. Quello che non stava mai fermo, che era sempre impegnato nella costruzione di qualche piano (criminale?). Quello del “è intelligente ma non si impegna“. Penso ce ne sia uno in ogni classe, rara avis, che diventa in breve la disperazione delle maestre e la cotta segreta di ogni ragazzina.

Io ne ho conosciuti parecchi. Qualche anno fa lavoravo in una scuola ad un progetto di comunicazione e media ed in classe ne avevo uno. Riuscire ad incanalare le sue energie ad ogni incontro era una vera impresa: si distraeva facilmente durante le lezioni teoriche, si annoiava nello svolgimento delle attività di scrittura, non partecipava e veniva continuamente ripreso dai compagni per le difficoltà di lettura. Poi un giorno ho notato che durante la lezione aveva preso i pennarelli e  fatto un bellissimo disegno. “William, che ne dici di essere il grafico del nostro giornalino?”– gli ho proposto. Non ho mai fatto scelta più saggia. All’incontro successivo era emozionatissimo, svolgeva il suo lavoro con grande attenzione e professionalità ed in breve anche i compagni da un atteggiamento di derisione e sfiducia erano passati all’ammirazione.

Perché lo racconto? Perché stasera mentre leggevo di social media e startup, di idee innovative e di grandi cambiamenti, di cervelli in fuga e fegati in rovina, mi è balenato che, come nella scuola anche la nostra società non riesce a incanalare molte buone energie perché non le riconosce. E a volte le buone idee vengono cestinate prima del tempo solo perché provengono da chi non ce lo saremmo mai aspettato.

Non ricordo dove ho letto una cosa che diceva “Tutti siamo intelligenti. Ma se si chiede ad un pesce di scalare un albero probabilmente non ci riuscirà”. Ecco: ci vuole fortuna nel capire quali sono le nostre capacità e trovare un lavoro che le metta bene in luce.

Ciò significa che non necessariamente il primo della classe diventerà famoso, ricco e importante, anzi. Proprio chi non ha nulla da rischiare, da perdere, probabilmente avrà più fegato degli altri e coraggio di lanciarsi in nuove avventure. E per questo i tempi sono maturi.

Vi linko questo articolo  sul perché è il momento adatto per creare una startup. Non pensate di trovarci chissà quali riferimenti pratici a imprese miliardarie, ma semplicemente un buon consiglio a chi ha sotto sotto il desiderio di farlo.

Prendete le qualità che aveva il vostro compagnetto pestifero e fatele vostre: creatività, fantasia, costanza, energia, e nessunissimo senso del limite alle vostre possibilità.  Poi lanciatevi nell’impresa folle e straordinaria senza remore e senza freni. In una parola: provateci.

Credo alla fine che sia questo il segreto: pensare l’impensabile senza schemi mentali e concedersi il lusso di dare una chance a quel bambino che tutti consideravano “un vero disastro”.

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Lasciatemi in pace quando vado al gabinetto ( e altre sconcertanti verità del marketing invasivo!)


La frase che più spesso ho sentito dire dal liceo ai giorni nostri quando si parlava di mass media è

Siamo bombardati dalla pubblicità

Pensateci. Dovreste averla sentita anche voi almeno un centinaio di volte. Banale, casuale e comune come la morte.Se ci aggiungete che l’advertising sta raggiungendo livelli da guerriglia ninja con tanto di pop up nevrotici, campagne geolocalizzate, annunci a pagamento targettizzati su Facebook e utilizzi similosceni dei QR Code comprendete bene quanto difficile sia uscire da questo campo minato.

Fra le ultime novità i Promoted Updates e Promotes Special su Foursquare (qui un articolo che li spiega molto bene!) sono quelli che si configurano fra i più insidiosi, soprattutto per il mio portafogli visto che conoscendo le offerte speciali a 50 metri da me potrei dilapidare tutto il mio patrimonio in men che non si dica.

Inoltre non oso pensare a cosa accadrà quando, magari visitando una zona piena di negozi o un centro commerciale, sarò assaltata dai messaggi promozionali, io, che magari volevo solo fare check-in in un posto figo. C’è da chiedersi infatti il cosa, come e quanto di queste comunicazioni. Come saranno date agli utenti? Convenienza sugli acquisti? Prossimità? Temporalità? Gusti dell’iscritto?

Se potessi scegliere come selezionare i messaggi pubblicitari a me destinati eliminerei sicuramente quelli con le seguenti caratteristiche 

a) Jingle pubblicitari banali e ridondanti. Vedevo l’altra sera su Quark la storia di un poverino perseguitato nella sua testa dalle musiche anni ’60. Incubo: venire ossessionati dalla canzone di Rio Casa Mia versione Bollywood. 

b) Espressioni artefatte o poco credibili. Tipo le donne che fanno gli spot del deodorante, che non hanno nemmeno l’ascella un po’ sudata dopo aver fatto 36 ore di sport estremi, palestra e balli di gruppo. O quelle che aspettano il ciclo per scalare montagne, lanciarsi dall’aereo e fare la ruota al provino da Vj! (a proposito, questa parodia  di quel famoso spot è divertentissima!)

c) Mancanza di coerenza nel racconto. Del tipo: perché la madre dovrebbe salvare la relazione amorosa della figlia adolescente mettendo in tavola una semplice caprese mozzarella e pomodoro? Mia madre mi avrebbe detto “arrangiati” ed io mi sarei ingurgitata come minimo tre camion di gelato al cioccolato.

d) Posizionamento fisico e mediatico errato. Un lampante esempio ne è la cartellonistica elettorale da cui in qualsiasi angolo della città occhieggiano sconosciuti con le frasi più improbabili. Vi metto sotto uno di quelli che ho considerato più “originale” beccato in quel della riviera ionica nei mesi scorsi.

 

E poi una cosa: cari pubblicitari, quando vado al bagno desidero essere lasciata in pace!

Per accalappiarmi nelle vostre reti avete tutta la giornata e buona parte della notte, ma il gabinetto è un luogo di contemplazione e raccoglimento pertanto non voglio vederci dentro i vostri avvisi sul perdere peso, stitichezza o dolori mestruali. E nemmeno i maschietti vogliono saperne di caduta dei capelli, tono muscolare e pancia floscia. Quindi patti chiari e amicizia lunga: voi non accedete alla mia toilette ed io comprerò ciò che mi inculcate sia nei miei desideri.

Qualsiasi cosa: biscotti, auto, vestiti, l’ultimo profumo di Lady Gaga. Tutto, pur salvare l’unico spazio di libertà che mi resta!

Mi sembra una contrattazione onesta, non trovate?

 

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Alice: una storia da conoscere.


Non voglio trasformare questo blog in un posto per appelli disperati ma la storia di Alice mi ha colpito e voglio raccontarvela.

Alice è piccola, bisognosa d’amore, di affetto e di un posto dove stare. Alice ha degli occhioni enormi e ti guarda attenta e dolce. E’ stata in tante case ma nessuna è stata quella definitiva. Ha conosciuto tante braccia, ma nessuno l’ha accolta per più di un breve periodo.

Alice è un cane, e so già che appena leggerai questa frase il primo pensiero che ti passerà in testa sarà: “non posso prendere un cane!” o… “Non posso farci nulla per un cane abbandonato”. Come ho scritto in questo blog più di una volta: io credo nella comunità e nella rete. Per questo lascerò qui la foto di Alice e ti chiederò solo di condividere questo messaggio. 

Il post precedente sulle offerte di lavoro ha fatto oltre 1200 visualizzazioni (non sarò mai grata abbastanza a voi di questo!). Se quei 1200 lettori adesso condividessero questo annuncio ci sarebbero almeno 3000 persone che prenderebbero a cuore Alice e la sua storia. Le probabilità per lei di trovare una casa aumenterebbero, sarebbe tutto più semplice. Quello che ti chiedo è un “click”. Usa Twitter, Facebook o Google e non preoccuparti della distanza. Se accetterai di prendere con te Alice penseremo noi a tutto .

Per Alice siamo disposti ad andare fino in capo al mondo purché trovi qualcuno disposto a darle tutto l’amore che si merita.

Grazie

La storia di Alice

Note: Alice è un cane di taglia medio/piccola (incrocio bassotto), ha circa 10 mesi e si trova in provincia di Catania.

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Sicurezza e web: siamo tutti appesi ad un filo.


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Qualcuno stanotte ha cercato di accedere alla mia mail.

Come me ne sono accorta? Ieri sera prima di andare a dormire ero collegata dallo smartphone e davo un’ultima occhiata alle comunicazioni di lavoro quando compare la scritta “richiesta password. Necessario nuovo accesso”. Pensavo che la stanchezza mi avesse giocato un brutto tiro e inserisco la mia pass. Strada sbarrata. Ci riprovo. Idem. Capisco che qualcosa non quadra. Spengo e riaccendo il telefono e ritento tutte le strade. Nada. Yahoo mi blocca l’account e mi chiede di connettermi dal browser. Ci provo e non riesco ad entrare. Recupero pass!? Provato ed è stato inutile. Sembrava che il mondo si fosse messo d’accordo con l’hacker.

Che poi hackerarmi la posta… perché? Non troverai numeri di carte di credito (al massimo le fatture di Amazon per i libri!), ne tantomeno fotografie con cui potrai ricattarmi. Non ho un indirizzo interessante, e nemmeno una corrispondenza segreta con grosse multinazionali. Caro Hacker: non avevi davvero niente da fare!?

E sempre per la serie tecnologia e sicurezza ieri sera un amico ha svelato il mistero che aveva impanicato le sue ferie. Durante le vacanze il router di casa aveva smesso di comunicare con lui il che significava solo o i ladri in casa o la totale assenza di energia elettrica. Al rientro però si è reso conto che ciò che era accaduto era semplicemente il distacco del cavetto di Fastweb dalla centralina che stava sulla strada.Tutti i fili sono custoditi in una scatola aperta alla mercé di chiunque passi. Ne ha dedotto che un incauto cittadino doveva aver staccato giusto il suo posando vicino il sacchetto dei rifiuti (visto che a poca distanza c’è una pattumiera!).

A chiusura di tutto qualche giorno fa avevo letto questo articolo sul  giornalista di Wired che aveva perso tutti i suoi dati a causa di ignoti. Se credete infatti che dietro l’hackeraggio ci sia chissà quale complotto… vi invito a leggere l’articolo e farvi due risate. Poi meditate sui sistemi di sicurezza della rete e sul fatto che tutti in realtà siamo davvero appesi… ad un filo.

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