Happy Death Xmas… (e altre strampalaggini milanesi!)


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BellaZènte…Comincia ufficialmente il conto alla rovescia! Sono solo gli ultimi 7 giorni di follia globale e poi potremo tirare un sospiro di sollievo perché, speso lo spendibile, acquistato l’acquistabile e scartato lo scartabile, siamo riusciti ad accontentare tutti, cugini parenti amici compresi i vicini di casa. E a proposito di vicini di casa: proprio ieri la signora dell’appartamento di fianco è venuta a suonarci per consegnare una fettona gigante di torta di mele&cannella&uvetta&pinoli aggiungendo la frase ” per me siete come i miei figli!” ( e io che pensavo fosse venuta a lamentarsi del volume dello stereo troppo alto!!). Ieri ho dedicato la mia intera domenica a gironzolare per Milano ( che poi io non capisco la gente che dice che Milano è brutta… a me tutto sommato non sembra così pessima! Non fa nemmeno tanto freddo..!). E fra panettoni, caramelle, palle con la neve, gnometti e aiutanti di babbo Natale ho pescato una bancarella dagli accessori decisamente “poco natalizi”… Roba che se li vedesse mia nonna correrebbe dal parroco a per farmi fare un’esorcismo.

Da questa fortunata scoperta ho tratto ispirazione e deciso di utilizzare gli ultimi 7 giorni non per fare letterine di buoni e inutili propositi e/o appelli alla generosità umana, ma per immortalare quanto di più inusuale e kitsch avviene all’ombra della madunìn.

Ovviamente ogni segnalazione è benaccetta!

Pronti? Via!!!

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Signori Uomini: vi stimo (Un’accorata lettera di solidarietà al genere maschio).


L’altra mattina ero al bar e mentre sorseggiavo il caffè ascoltavo (per puro caso lo giuro!) i commenti di un signore di mezza età che attendeva la moglie al rientro dagli acquisti natalizi. Devo ammettere che vivere sopra un bar è una cosa parecchio affascinante in quanto, a qualsiasi ora del giorno, si trovano spunti interessanti di riflessione nelle chiacchiere altrui. Oggi, ho deciso di scrivere una lettera a quel distinto signore, e con lui a tutto il genere maschile.

Gentile Signore del Bar & Signori uomini,

io vi stimo. Vi stimo un sacco e vi stimo soprattutto in questo periodo in cui noi donne (anche io!) ci tramutiamo in delle specie di invasate dell’acquisto e facciamo diventare sport nazionale la staffetta fra negozi per accalappiarci lo sconto, l’offerta, il regalo più adatto a zio/cugino/nipote/suocera/sorella.

Signori Uomini, io vi stimo per quella sorta di solidarietà fraterna che istaurate fra voi e che vi spinge ad aspettare pazientemente fuori dai negozi al freddo e al gelo, fumare la sigaretta, cazzuliare il palmare, attendere. Perché voi maschi, che lo vogliate o no, fate una vita di noiose attese. E su questo io ho una mia teoria che cito testualmente:

<<la quantità di funzioni& app del cellulare di un uomo è tanto maggiore quanto maggiori sono le attese ( tempisticamente parlando) a cui il suddetto un uomo è sottoposto.>>

Insomma, diciamoci la verità: per voi  maschietti avere internet sul cellulare è indispensabile  per sopravvivere mentre, in doppia fila, attendete l’uscita della moglie dal parrucchiere. Avere un’ app per le scommesse calcistiche vi fa ammazzare il tempo quando incappate nei canonici ” cinque minuti e sono pronta”. Non oso immaginare cosa diamine acquistiate sull’App Store quando dovete attendere per nove mesi un figlio!!

Signori Uomini, io vi stimo. Vi stimo davvero perché nonostante decenni di trita e ritrita rottura di coglioni non smettete di farvi dissanguare la carta di credito nei giorni precedenti le feste, piangendo silenziosamente lacrime di sangue. Non smettete di accontentare le nostre piccole richieste (vedi pranzo con i parenti!) e vestite in genere anche gli orribili maglioni con l’alce sferruzzati dalle nostre/vostre madri. Nonostante tutto riuscite a mantenere la sanità mentale che noi perdiamo nel giro di qualche settimana, inglobate i quintali di cibo che prepariamo e come balene morenti vi spiaggiate sul divano, al massimo sorseggiando un’amaro. Nell’attesa che questo delirio finisca per una volta mi metto dalla vostra parte e a nome di tutte noi, che vi abbiamo già mandato il conto in rosso,  posso solo dirvi grazie… e tanti auguri.

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Dopo quasi un mese sono riuscita a riaccedere al blog. Sono cambiate un sacco di cose, che a scriverle tutte ci impiegherei l’intero ponte del 7-12 Dicembre. Le più importanti sono che adesso sono qui, a Milano, pseudostabile, e che questo con ogni probabilità sarà il mio primo Natale lontano dalla mia (chiassosissima) famiglia, dalle mie (meravigliose) amiche, e dal mio ( indaffaratissimo) toyboy.

Siccome non voglio passare questi giorni ammorbandomi l’animo di malinconia ho deciso che mi immergerò in letture altamente formative e luoghi interessanti. Il primo me l’ha suggerito il barista stamattina, quando mi ha visto resuscitare dal letto e presentarmi al bancone con occhiali stile Lady Gaga per nascondere gli effetti della giornata intensissima di ieri.

Oh bej oh bej.

Già il nome mi ispira: quando poi il mio toyboy mi ha spiegato che sono bancarelle la mia gioia è sprizzata a livello 110.

Per quanto riguarda le letture l’altro giorno sono appositamente andata alla Feltrinelli per acquistare ” Gli amori difficili” di Calvino. E mentre me ne tornavo a casa con il mio nuovo libro sotto il braccio pensavo che io, in compenso, avrei potuto scrivere ” Gli amori impossibili” o quantomeno ” Gli amori altamente complicati ai tempi del web 2.0″. E sempre su questa scia voglio preannunciare che domani sera siete tutti invitati a incrociare le dita.

Non vi dico per cosa, ma conto nelle vostre vibrazioni positive!

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Me and Mr. Big


“Quando guardo Big capisco che è lui perchè è da lui che lascio la mia biancheria più bella senza rimpiangere di non poterla usare.. E’ da lui che trovo lo spazzolino che ha comprato per me e un cassetto vuoto per le mie cose.  E’ lui che non butta i miei giornali anche se sono vecchi di mesi,mi prepara il letto quando sono stanca, mi abbraccia se piango. E’ lui che mi dice ” non ti ho baciato perché ti ho vista sorridere mentre leggevi e non volevo disturbarti”, che sceglie il vino migliore e lo apre solo se ci sono io. E non fa i piatti perché non vuole perdere nemmeno cinque minuti del nostro tempo  insieme. So che è lui perchè quando stiamo insieme mi accorgo delle cose belle, divento migliore, e nel sonno sorrido.”

* So bene che al 99% di voi questa cosa farà cariare i denti e consultare il numero del più vicino centro di diabetologia.  Ma alzi la mano chi di voi non ha mai avuto uno di questi pensieri ( anche in ordine inverso e/o sparso) nel corso della sua vita. Per oggi niente post seriosi. Riprendiamo domani! 🙂

 

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Com’è l’inferno.


“Ed eccomi qui. Culo sul treno, pendolare dell’amore. 1200 Km per restare 48 h con lui. E valigie, treni, metro, aereo, vestiti,cappotti,biglietti, sciarpa e nonstaidimenticandoniente e acheoraparteiltreno, e prendere l’ultimo caffè, l’ultima sigaretta, l’ultimo bacio. Gli ultimi cinque minuti che sembrano l’anticamera dell’inferno. Perché me lo immagino così l’inferno. Un posto dove non mi sento bene come quando sto con lui. E nonostante tutto andarsene via sorridendo perché non vuoi che pianga o che stia male.Perché lui è veramente fantastico. Veramente speciale. E veramente l’unica cosa per il quale valga la pena tutto questo.”

 

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Se la morte non ci rende tutti uguali..


 

Da stamane su tutti i social network i messaggi di cordoglio per la morte di Marco Simoncelli i riempino profili e bacheche. Le scene del drammatico incidente sono passate decine di volte sotto i nostri occhi e forse, proprio la loro sconcertante banalità ci rendono ancora più difficile digerire l’ineluttabilità del fato. Link. pagine fans (alcune create  dagli avvoltoi del web appositamente per raccogliere adesioni). fotografie, video fioccano senza tregua. Quello che mi viene da pensare è che l’immagine che i media riflettono di noi non ci segua nella tomba e i vivi si prendono il disturbo di nutrirla con tutte le circostanziali ipocrisie del caso: talk-show, speciali tv, paginoni a colori dei quotidiani. Una tradizione funeraria dal gusto alquanto discutibile pari a quelle donne che venivano pagate per battersi il petto durante i funerali. Tutti pronti a ricordare il campione e le sue imprese. Ciao Sic.

Quello su cui voglio riflettere, al di là però della tristezza che posso provare per questo ragazzone che se n’è andato via troppo presto, è il diverso trattamento della morte. Ieri è venuto a mancare Damiano Russo. Chi? Direte voi. Damiano Russo, un attore di 28 anni che pochi  ricorderanno in viso. I più fortunati al massimo diranno che è una faccia conosciuta. Damiano, che di recente aveva recitato in un film-tv con Raoul Bova, aveva trascorso i suoi anni fra poche pellicole cinematografiche e serie televisive senza però fare mai il “botto”. Il destino è beffardo: anche lui ieri sera era sulla sua moto e ha perso la vita in un’incidente. Coincidenze. Due giovani, entrambi legati al mondo dello spettacolo, entrambi con dinamiche simili perdono la vita: ma mentre per uno c’è il cordoglio nazionale, la foto gigante con tanto di riferimento al video delle riprese ( per i più morbosi voyeur che non vogliono perdersi nessun dettaglio del macabro show)  per l’altro solo un piccolo trafiletto a fondo pagina. Certo: stiamo parlando di due figure completamente diverse a livello di presa sul pubblico: il primo legato a pubblicità e radio, solare, spiritoso, il secondo più introverso, meno esposto ai media e dalla vita più appartata. Stiamo parlando di due situazioni diverse: il primo muore in diretta in una gara con migliaia di spettatori, il secondo per le vie della sua città durante una tranquilla serata. Ma la morte non dovrebbe renderci tutti uguali? Evidentemente no, soprattutto se il trattamento  post mortem che ci riserva il mondo dell’informazione è diverso. Un caso simile era già successo: alla morte di Steve Jobs era seguita quella di Dennis Ritchie pioniere dei linguaggi di programmazione, ma la sua scomparsa non ha avuto la stessa risonanza nel grande circo mediatico.

Come a dire: speriamo di essere fortunati nel giorno del trapasso se vogliamo avere quei dannati 15 minuti di gloria.

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beh caro gufetto.. vediamo cosa sai fare


beh caro gufetto.. vediamo cosa sai fare…

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Diventa un cervello in fuga ( sottotitolo: com’è triste l’Italia).


Apro la mail dopo una stancante giornata dedicata allo studio e al lavoro e quello che trovo mi lascia sgomenta. No, non è un link al porno di Belen (che tra l’altro non ho nemmeno visto). E’ la pubblicità di una nota azienda che propone di candidarsi per le selezioni di stage o lavoro all’estero. E fin qui nulla di male. E’ però la frase che usa come lancio che mi lascia perplessa, mi impaurisce, mi offende.

Eh si. Pure io ho pensato un sacco di volte di andarmene lontano. Ma alla fine penso anche: se io che sono italiana me ne vado, chi ci pensa a questo povero paese!? E’ come la barca che affonda e ognuno pensa a prender una scialuppa per se. No. Non è così che sono abituata. Spesso mi sento dire che sono un’utopista se penso che il mio paese migliorerà ma io non credo di esserlo: semmai sono una pessimista a tempo determinato. Mi piace pensare che questo momento difficile deve finire prima o poi. Vedo dalla mia esperienza diretta che l’Italia è piena di talenti e persone di buona volontà ( oltre a una notevole dose di minchioni, ma quello è tutto un altro discorso…) per cui questo manifesto lo reputo come un’offesa.

Usa la testa… ma davvero dico! E’ questo il messaggio che volete lanciare!? In un paese che più povero non si può, e che come unica ricchezza ha solo l’arte e il genio dei suoi studenti e ricercatori istigare alla fuga dovrebbe essere un reato tale e quale al danno al patrimonio! Non dico di restare, sia chiaro: tutti dobbiamo sviluppare il nostro potenziale nel modo a che preferiamo e che ci fa stare meglio, ma io credo che fuggire non sia ” usare la testa” ma usare ” la pancia”. Perchè dall’Italia ci fuggiamo a causa degli stipendi inesistenti, degli stage di 6 mesi dove non vedi il rimborso di una lira, dei lavori in nero, della mancanza di sicurezze. Dall’Italia ci scappiamo per assenza di meritocrazia, perchè puoi avere anche 110 e lode ma il figliodelcuginodellasorelladellaziadelcognatodelnipotedelTalDeiTali te lo troverai sempre davanti. E soprattutto dall’Italia ci scappiamo perchè tutti ci dicono scappa. E nessuno invece si rende conto che dovrebbe esistere una “responsabilità sociale” rispetto al talento che abbiamo, a come usarlo e dove portarlo.

Dovrebbe esistere anche una società che riconosce i meriti di ciascuno, pronta ad intervenire a sostegno dei giovani e delle loro idee, capace di aiutarli nei loro progetti e nei loro sogni. Ma forse la verità è che questa società non esiste perchè nessuno ha pensato di gettare le basi per crearla dato che eravamo tutti impegnati a sussurrare “fuggi fuggi” all’orecchio del prossimo.

Diventare un cervello in fuga non lo vedo come un lampo di genio, ne tantomeno come una cosa che ” fa figo”. E’ una realtà triste, pesante, che non doverbbe essere il claim di nessuna università, centro di formazione o agenzia di selezione.

Diventare un cervello in fuga dovrebbe essere l’ultima scelta di ognuno di noi se vogliamo far diventare l’Italia un paese diverso e chissà migliore.

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Greta non ha paura.


 

Greta si sveglia. Sono le 6.32 tutt’intorno è silenzio. Dalla finestra una luce schiva entra nella stanza restando un pò incastrata nelle tende che ballano al leggero soffio dell’autunno. E’ ottobre e giù in Sicilia c’è ancora caldo, e sole, e gabbiani a mare. Greta cerca di ricostruire a mente la sensazione della spiaggia sotto i suoi passi, dei ciottoli, il rumore delle onde. Il lenzuolo impigliato tra le gambe sembra l’acqua che quasi ti vuol portare via con la risacca. Ma tutto questo è solo nella sua mente. Il mare non c’è. La battigia nemmeno. Greta si alza e apre la finestra: spazia con lo sguardo verso l’orizzonte e conta dieci gru, quattro cantieri, due operai che avanzano lenti chiacchierando sottovoce verso un giorno da costruire. Già. Perchè  a l’Aquila la vita è mattone dopo mattone, attimo dopo attimo. Quando aveva deciso di trasferirsi qui ogni persona la guardava sgranando gli occhi. ” Tu sei matta!- le aveva detto Giulia- Ti vai a cacciare nei guai!”. Ma Greta è una di quelle che sa quello che fa. E Greta non aveva paura. Con cura  aveva riposto nelle valigie il necessario per la sopravvivenza. Vestiti e libri e se ne era andata. I primi giorni erano stati strani: annusava l’aria della nuova città, della casa che sembrava non riconoscerla. Poi , come accade agli animali, entrambe si erano addomesticate. L’Aquila era diventata docile sotto i suoi passi, conosciuta, familiare. Greta era diventata un unica cosa con ogni frammento della città. Ora era un cornicione, ora era l’orologio immobile come un’impiccato. Entrambe piangevano le ferite l’una dell’altra: entrambe erano pronte ad amarsi, riceversi, proteggersi. Ed entrambe sapevano farsi belle per chi si ama, come una donna innamorata. Greta conosceva l’arrivare della sera nelle viuzze del centro. E l’Aquila le regalava un pò di tramonto come quello che a volte si vede nelle cartoline. Lei lo apprezzava tantissimo, lo sforzo di questa amica povera e un pò dimessa che un tempo era stata elegante e sofisticata. Era questa complicità che rendeva tutto più semplice. Era questo accettarsi reciproco, con i difetti e le manchevolezze che le aveva rese amiche da quel momento in poi.

Greta si raccoglie i capelli, si veste di corsa guardando l’orologio e passando dalla cucina afferra un biscotto. Il caffè no, quello lo prende giù al bar dove ormai la conoscono come “la siciliana”. A Greta quel soprannome non dispiace perchè anche se si è allontanata dalla sua terra che ama tanto non è scappata. Anche se ama un altro luogo non toglie nulla a quello in cui è nata e cresciuta. Perchè Greta è così. Una di quelle persone che sanno dare valore alle cose, alla distanza, e alle emozioni.

E soprattutto Greta non ha paura.

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Il gabbiano aveva ragione.


Sofia se ne stava seduta sul muretto con gli occhi socchiusi. Quel pomeriggio ventoso dove il sole faceva capolino fra le nuvole se lo stava godendo nonostante le macchine dall’altra parte  della strada sfrecciassero e la prendessero quasi per matta. Lei, messa là, incurante del vento che spazzava la costa e che le buttava in faccia sabbia e microscopiche gocce. A Sofia il vento piaceva. Quando era piccola pensava di riuscire a controllarlo. E così se lei era felice soffiava una brezzolina leggera, se era furiosa imperversava la bufera, se era eccitata arrivava lo scirocco, se era triste la tramontana. Adesso, mentre si crogiolava nel sole, poteva sentire i suoi capelli scompigliati da mani dispettose. Mani di aria che le si infilavano nella sciarpa e le scendevano sulla schiena. Aria che le fischiava nelle orecchie. Il vento portava verso la spiaggia l’odore del mare. Sofia inspirava la salsedine e si puliva  polmoni e pensieri. In quell’istante il tempo non contava troppo. Sofia aveva più l’impressione che fosse in  uno di quei momenti in cui il mondo sembra girarsi verso di noi, alunni dell’ultima fila e dire ” ehi! Si tu! Guarda che ho qualcosa da insegnarti!”. Perplessa della sua considerazione restò ancora a riflettere un istante. Che lezione voleva dargli oggi il piccolo globo terracqueo che malfermo si reggeva in piedi? Una lezione di forza? Una lezione di potenza? Sofia aprì gli occhi in un punto indeterminato del cielo e le sue pupille corsero nell’infinito azzurro. Poi lo vide e capì. Sopra di lei un gabbiano volteggiava lento. Sofia lo osservò e quella vista le ricordò i ninnoli che i suoi genitori le avevano messo  sulla culla quando era bambina. Il vento spazzava impetuoso la superficie dell’oceano e si rinforzava. Ma il gabbiano non sembrava preoccuparsene affatto. Le ali grandi, dispiegate, raccoglievano le correnti ascensionali che lo portavano in alto dolcemente. L’animale non sembrava in difficoltà né aveva paura. Non strideva, non cercava di opporsi al gioco del vento capriccioso ma al contrario usava tutta la forza dell’aria per virare. Era questo quello che doveva imparare oggi? Non opporsi alle difficoltà con forza ma usarle per sostenere il volo. Sofia pensava che se il gabbiano avesse cominciato a battere le ali non sarebbe stato in grado di muoversi. Invece in quel modo, immobile e calmo, aveva potuto ottenere quello che voleva senza sforzi. Non era necessario in quella condizione sbracciarsi, affaticarsi. Era indispensabile capire il vento. Capire dove soffiasse e con quale forza e poi lasciarsi trasportare. Era una lezione di pazienza. Sofia guardò il suo amico che si allontanava, ormai un puntino alto nel cielo.

E capì che il gabbiano aveva ragione.

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